29 Aprile 2505.
Berishan, Afghana.
Il tavolo da pranzo è talmente lungo che Siddartha avrebbe tutto il tempo alzarsi e di sgusciare via, mentre Donald lo percorre da un capo all'altro, ma una mano invisibile ne schiaccia le ossa fra i braccioli della sedia costringendogli le pupille dilatate sui lineamenti angolosi che gli navigano incontro, congestionati in una maschera di severità inviolabile. La prima carezza delle sue dita fra i capelli gli spegne un brivido fra le scapole, prima che Don afferri brutalmente le ciocche chiare per spingergli la faccia nel piatto con uno strattone violento.
L'impatto gli rende le ossa del viso dolenti e la testa leggera, svuotandola dal rubinetto aperto delle narici.
Non doveva arrivare a cena in ritardo. Non con quel sorriso ostinato arricciato sulle labbra e l'odore di bloom addosso. Se ne pente ora che è troppo tardi, mentre cerca di respirare attraverso l'impasto di sangue e crema di gamberi che gli ha riempito le fauci e il naso. Il colpo di tosse che lo scuote non fa che rendere più dolorosa la morsa sui propri capelli; il fiotto di voce che gli risale la gola è reso ovattato e pastoso dall’ostacolo denso che riempie il palato.
« … Mi dispiace. »
Non sa da dove gli venga tutta quella calma. Sente la tosse bruciare il fondo dei polmoni, mentre un conato di nausea gli rivolta lo stomaco. Le dita affusolate, aggrappate alla base dello schienale, pulsano di una smania convulsa che non riesce a farsi largo nella voce.
Don apre la mano lentamente, sfilandogli dal cranio le migliaia di spilli affondati dentro il cuoio capelluto. Incombe su di lui con la leggerezza distaccata dei carnefici indifferenti. La pressione del palmo lo tiene immerso nel piatto come dentro una fonte battesimale, obbligandolo ad annaspare e a ricacciare indietro gli spasmi dell'esofago mentre succhia e deglutisce la pietanza infettata di sangue. La forza dell'abitudine fa sì che non impieghi più di una decina di minuti a leccare via l'ultimo baffo di crème rugginosa.
I polpastrelli tiepidi di Don gli sgusciano lungo la nuca, elargendo una carezza intenerita che increspa la pelle di Sid come il passaggio di un cubetto di ghiaccio.
« Nǐ ràng wǒ shīwàngle hěnduō. »
(You let me down a lot).
Gli ricorda in un mormorio vuoto, curvandosi a baciargli svogliatamente una tempia prima di riconquistare senza fretta l'altra estremità del tavolo. Scivola a sedere con quiete distratta, spogliata di eccessi dall'impronta marziale che ha cucita addosso come una seconda pelle.
« Pulisciti la faccia. »